Ripensandoci, quando ero piccola, la Valle del Panaro era in pratica una immensa food forest, che l’amico Stefano Sereni, per anni direttore dell’Istituto professionale di Agraria di Vignola, ebbe a definire “la selva fruttifera”.
Di quella “selva fruttifera”, come del resto di tutta l’epopea della ciliegia e della frutta tipica di Vignola ho scritto, insieme agli amici Maria Giovanna Trenti e Perluigi Albertini, nel libro dal titolo “Il frutto del Paradiso”, Edizioni Vaccari.
Nell’immediato dopoguerra, l’agricoltura vignolese continuava ad essere condotta secondo i canoni consolidati della mezzadria. Nello splendido scenario delle Basse, l’estensione della media aziendale, rapportata alla famiglia mezzadrile, era mediamente di soli 1 o 2 ettari. Il fondo era disegnato da appezzamenti regolari delimitati dalle capezzagne e dai fossi di irrigazione e di scolo, attentamente ordinati e tenuto con un preciso livellamento della superficie a pendenza regolare, tale da consentire l’irrigazione per infiltrazione laterale.
Articolato sulla coltura del ciliegio, il terreno veniva sfruttato al massimo con una coltivazione “a strati orizzontali sovrapposti”. Le piante di ciliegio, allevate “a pieno vento” e con la prima impalcatura (biforcazione dei rami principali)ad oltre 3 metri di altezza dal suolo, cosi che le drupe potessero meglio sfuggire alle nebbie, alle gelate e alle brinate tardive. Svettavano quasi come querce secolari, ad altezze che potevano anche superare i 20 metri, ed erano poste ad una distanza oscillante tra gli 11 e i 13 metri e le loro ramificazioni giungevano spesso a toccarsi. Lungo il filare, tra le chiome dei ciliegi si inserivano, un po’ più basse, le chiome dei peri e degli albicocchi, sotto di questi, occupando lo spazio aereo rimasto libero, si stendeva lo strato della vegetazione di piante a media altezza come meli e susini, che si alternavano lungo il filare tra i ciliegi e i peri, mentre alberi ancora più piccoli, come peschi, kaki, susini giapponesi, costituivano il terzo piano della selva fruttifera.
Queste piante poi fungevano da”tutori vivi” per i “cordoni” delle piante di vite, i cui tralci venivano “tirati e sospesi lungo il filare e tra un filare e l’altro.
Tra gli alberi da frutto, il terreno veniva coltivata, secondo i canoni precisi di un’attenta e consolidata rotazione, ad erba medica , per ottenerne fieno, trifoglio, veccia, segale ed altre foraggere alternandosi ai cereali: mais, frumento, orzo, sia da granella che da foraggio. E poi c’erano gli ortaggi, coltivati a pieno campo radicchi, patatem cardi, cavolfiori, lattuga e altre ortive stagionali in successione destinate all’autoconsumo e ai mercati locali, nonchè fragole.
Mediamente su un ettaro insistevano 2 bovine adulte, utilizzate per l’apporto di latte, ma anche per l’aratura, il trasporto e la produzione di vitelli, una o due manze per la rimonta o vitelloni da ingrasso. Ogni errano supportava poi uno o due suini da ingrasso, oltre naturalmente a conigli, galline, polli, faraone, anatre, oche, tacchini e piccioni per le esigenze familiari e per la vendita delle uova, con un carico plv/ettari (produzione lorda vendibile per ettaro) elevatissimo. La presenza del bestiame assolveva poi alla funzione di fornire sostanza organica (letame) il cui sapiente uso e dosaggio consentiva al terreno di sostenere l’immane sforzo nutritivo per l’ingente produzione unitaria vegetale.
Negli anni Cinquanta, gli effetti dell’economia di mercato e dell’introduzione su vasta scala della meccanizzazione agricola avevano messo economicamente in crisi questo stupendo capolavoro di equilibrio produttivo.
Le foto di questa pagina sono tratte da “Il frutto del Paradiso”, Edizioni Vaccari
Miria Burani ©